ABBIATEGRASSO – Era tornata il giorno prima dall’Iraq, l’abbiamo invitata per chiederle di presentare il suo libro in uscita “Racconti di schiavitù” ma anche per parlare delle sue molteplici esperienze in Paesi come Libano, Siria, Tunisia dove ha realizzato reportage per diverse testate occupandosi di donne, conflitti e società civile in Medio Oriente, scrivendo delle madri tunisine in cerca dei figli dispersi in mare, dell’offensiva di Mosul e di Raqqa, sulle mogli dei combattenti dello Stato islamico. Sara Manisera è una ragazza coraggiosa che vuole testimoniare direttamente quello che succede anche nelle zone più povere, più maltrattate. Ha iniziato con la tesi di laurea con il prof. Nando dalla Chiesa sul caporalato a Rosarno e non si è più fermata. E’ vissuta a Beirut dal 2014 al 2017 ha lavorato in diversi Paesi e ricevuto diversi premi importanti, anche un riconoscimento al Premio Italo Agnelli 2019. Del suo libro dice: “Parla dello sfruttamento dei lavoratori nelle campagne agricole, dei posti dove si produce il nostro cibo, tutto quello che consumiamo. Sono dei racconti, non è un’inchiesta, racconta le storie di persone sfruttate e di persone che provano a cambiare il modo di produrre e consumare la frutta e la verdura. Piccole realtà sparse dal Piemonte alla Puglia e alla Sicilia che provano a tutelare l’ambiente e i diritti delle persone. La maggior parte dei lavoratori nelle campagne italiane sono stranieri, principalmente dell’africa sud sahariana. Racconto storie di persone arrivate in Italia da 10-15 anni che la crisi economica del 2008 ha portato a lavorare nelle campagne, racconto di uomini di 40-45 anni che nel Veneto, come nella bergamasca o nel bresciano si sono trovati senza lavoro e in campagna seguono il ciclo delle stagioni e raccolgono d’estate i pomodori, in autunno arance e mandarini… Una giornata di lavoro, da mattina a sera, viene pagata da 15 a 20 euro, di cui una quota al caporale che fa da intermediario, si deve anche pagare per il servizio di trasporto e per la baracca dove vivere. Lo sfruttamento delle campagne è legato anche al modo in cui consumiamo, quando noi consumatori andiamo a fare la spesa, se vediamo una passata di pomodori che costa 0,99 centesimi dobbiamo farci qualche domanda. Di chi sono le mani che raccolgono, com’è coltivato il pomodoro, con quali concimi e prodotti chimici…” Le condizioni dei lavoratori italiani sono simili? “Assolutamente sì, anche se gli italiani sono diminuiti nelle campagne perché c’è stato un affrancamento dalla terra rispetto a 40 anni fa, anche i miei nonni erano contadini…” Che cosa ti spinge ad andare in zone pericolose? “Ho studiato a Beirut e ho iniziato lì a raccogliere storie di cambiamento della società civile e nello stesso tempo mi sono trovata dentro ad alcuni conflitti, volevo andare a vedere cos’è l’Isis, com’è nato e perché, che responsabilità abbiamo noi in Occidente, che politica fanno i nostri Paesi, raccontare per me significa andare a vedere con i miei occhi. Incontrare le persone sui territori raccontandone le sfumature”. Che cos’hai scoperto di diverso rispetto a quando non eri sul posto? “La guerra non è bianco o nero, il buono e il cattivo spesso si fondono insieme soprattutto in contesti complicati. Avevo in testa stereotipi, si pensa all’iraq solo come Paese in guerra ma ci sono zone più esposte al conflitto e altre dove si vive nella normalità. Dipende dalla narrazione fatta da giornali e tv, si pensa al medio oriente come a una polveriera di conflitti ma vi sono anche esperienze positive di pace, per esempio Beirut è una città ricca, con grattacieli, auto di grossa cilindrata, feste notturne, il giornalismo a volte fa vedere solo una parte di realtà…” Ora Erdogan attacca di nuovo i curdi “In Siria sono stata diverse volte. Resto scioccata da questa politica, i curdi hanno liberato le città conquistate dall’Isis e lasciare che vengano riconquistate.. I combattenti dell’Isis, l’Europa dovrebbe prendersi la responsabilità di rimpatriarli e fare un programma di riabilitazione e recupero perché lasciarli in un campo o in prigione con i loro bambini di pochi anni, significa creare una generazione radicalizzata, un problema da affrontare magari tra una decina d’anni…” Sara che cosa cerchi? “Questo lavoro lo faccio spinta dalla passione, la mia generazione si trova in una condizione di precariato, mi finanzio per andare in questi luoghi, raccogliere storie e poi venderle in diverse lingue. Cerco di raccontare i fatti per quello che sono, quello che vedo, le voci delle persone. Cerco di cambiare la narrazione, una narrazione di pace, da un altro punto di vista, privo di stereotipi, di pregiudizi, ricco di sfumature che mancano, oggi quando si parla di qualsiasi tema, si rischia di entrare in una rissa e manca l’approfondimento”. Che cosa possiamo fare da qui, leggendo il lavoro di altri? “Scegliere le fonti di informazione, certi siti non sono giornalisti, consumare in modo diverso, a km 0, se inquino la mia terra, la generazione di domani cosa mangerà? Dobbiamo proteggere l’ambiente in cui viviamo e pensare a un altro tipo di economia non basata sul cemento ma su un’agricoltura sostenibile”. Sara dove andrai? “Torno in Iraq tra un mese per girare il mio primo documentario per una tv francese, con 3 ragazze faremo un lavoro che racconta di 3 giovani iracheni che lottano per il diritto all’acqua. Smonteremo degli stereotipi e faremo vedere che anche in Iraq c’è una generazione che vuole cambiare il Paese e difendere l’acqua pubblica. Un appello ai giovani abbiatensi? Informatevi, chiedetevi perché accade qualcosa, osservate qualsiasi dettaglio e diffondete l’idea di una città sostenibile”. Grazie Sara, ragazza davvero speciale! Enrica Galeazzi
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