ABBIATEGRASSO – “Nel nostro territorio si coltivava la vite, – ha affermato lo storico Mario Comincini grazie a una sua minuziosa ricerca – a Corbetta è stato trovato un pressoio per l’uva e dei contenitori per il vino”. Comincini è stato invitato a parlare della storia agricola del territorio abbiatense, in occasione di un importante convegno sull’agricoltura nel nostro territorio tenutosi il 19 marzo in Castello. Gli ospiti e anima viva del discorso sono stati, invece, i coltivatori e i trasformatori di prodotti. A condurre la giornalista Enrica Galeazzi. “La produzione vinicola, però, si è estinta da noi. Invece la storia dei formaggi è molto lunga: già nel 1200 i monaci avevano nelle derrate la ricotta. Nel 1600 invece si sa che a Caselle si produceva il grana. Ma quello che più interessa è il prodotto d’eccellenza dell’abbiatense: il gorgonzola. Le tecniche di produzione erano diverse. Per formare la muffa i formaggi venivano bucherellati e sovrapposti tra le diverse cagliate, così che rimanessero dei solchi e degli intercapedini per far circolare l’ossigeno. Anche gli animali venivano nutriti in modo diverso dalle miscele cerealicole di oggi. I nostri nonni lavoravano le marcite, così l’erba cresceva e le mucche si nutrivano di quello”. Comincini ha concluso azzardando un ritorno al vecchio modus operandi, subito, però, troncato dal proprietario delle cascine Fontanone e Ramondata Alessandro Foi, agricoltore storico: “Il latte di marcita non va bene. Il mercato vuole delle paste bianche, invece le marcite danno una pigmentazione gialla al latte. L’erba delle marcite inoltre è dannosa per la digestione dei bovini. È umida e ricca di acqua, così causa la diarrea e la proliferazione di parassiti intestinali. Per questo è stato abolito il suo uso e per questo non si può tornare indietro”. Se tornassimo indietro ci sarebbero dei problemi di produzione e qualità. La genetica ha migliorato e accelerato notevolmente i tempi di produzione, soprattutto ha migliorato la resistenza delle colture e degli animali. Marco Cuneo, della cascina Gambarina, ha detto a tal proposito: “Io ho deciso di passare al biologico. Questo non significa che non utilizzi i macchinari e le tecnologie di oggi. Fare biologico significa usare le tecniche di una volta con la tecnologia di oggi”. Tornare al passato è impossibile, ma non bisogna dimenticare la tradizione che ci ha preceduti. In un momento come questo la tradizione è l’unica in grado di salvare l’agricoltura. Sempre più coltivatori sostengono una ripresa del modo di produrre di una volta: il biologico era l’agricoltura dei nonni, la rotazione e la semina del trifoglio nel frumento sono piccoli ma importanti accorgimenti vecchi quanto l’agricoltura stessa. Il motivo di questo sguardo sul passato è una reazione alla concorrenza dei paesi stranieri che, vendendo materie di bassa qualità a prezzi bassi, mandano in crisi i nostri produttori. L’originalità è la risposta. Sembra una contraddizione: per fare qualcosa di unico ci si rifà al passato. Ebbene sì. La tradizione è l’arma contro la globalizzazione e la concorrenza, occorre però un’altra politica, non quella europea attuale che elimina dazi ai prodotti esteri e non salvaguarda i nostri produttori. Non tutti i coltivatori sono in grado anche di commercializzare i loro prodotti ma Gabriele Corti della cascina Caremma sostiene la multifunzionalità perché chi ci guadagna non sia solo il trasformatore e il commerciante. Si tratta della vendita a km 0, dove i cittadini entrano direttamente in contatto con le aziende agricole. Anche questa è una pratica dei nostri nonni. Ad oggi però queste aziende si trovano ad affrontare anche la concorrenza delle grandi aziende e multinazionali in Italia. In un periodo di crisi e di mancanza di leggi che aiutino gli agricoltori molte piccole aziende falliscono e le grandi imprese acquistano i loro terreni. Così si va solo incontro a un uso efferato e incontrollato della terra e l’unico obiettivo diventa produrre e la qualità passa in secondo piano. Questa è la globalizzazione. Per impedirlo bisogna fare rete, non solo tra agricoltori ma anche con altri settori, come quello della costruzione di macchinari. Tra gli agricoltori anche Filippo Ghidoni, che produce birra artigianale alla Morosina dal 2010, ha appreso inaspettatamente da Comincini che la birra ha origini antiche anche sul nostro territorio. Una filiera completa per la sua birra agricola, dalla coltivazione del luppolo all’organizzazione della rete di vendita nei supermercati e all’estero, persino in Germania. Luca Garavaglia, allevatore di razze pregiate, rare e in via d’estinzione e coltivatore bio, ha confermato come Corti che le innovazioni e l’unicità sono premiati dal mercato. Tra i partecipanti anche Antonio Cairati, produttore di un eccellente gorgonzola, che trasforma il latte proveniente dalle stalle delle nostre cascine. Uno dei problemi comunicati riguarda i costi delle analisi per essere certificati, anche Locatelli di Coldiretti è intervenuto per invocare il giusto reddito a cominciare dal latte. Il convegno, che ha voluto dare voce agli agricoltori per avere una fotografia aggiornata dell’agricoltura sul nostro territorio, ha verificato che si tratta di un’agricoltura sempre più attenta alla qualità, un’agricoltura che va sostenuta acquistando i nostri prodotti. L’incontro è terminato così: “Prodotti per cui ringraziamo i nostri agricoltori e, in vista delle prossime elezioni, suggeriamo ai politici locali di aggiungere all’assessorato all’ambiente anche l’agricoltura, per un rapporto e un’attenzione che va incentivata. Si valorizza più la cucina e gli chef, ma si parla troppo poco del prodotto, da dove viene e come viene coltivato. Il nostro è un invito a invertire tale tendenza”. Mariza Lakaj
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