ABBIATEGRASSO – Una storia, anzi una cronistoria ricchissima di fotografie e testimonianze che documentano in modo circostanziato il contributo di eroi dimenticati quali i medici che hanno seguito i soldati al fronte durante la prima Guerra Mondiale, condividendone i rischi e occupandosi, con i primi ospedali mobili, delle loro ferite. Il prof. Contardo Vergani, dell’Università degli Studi di Milano, è il direttore dell’unità di Day Surgery dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e il fil rouge che lo lega ad Abbiategrasso, città natale dei suoi genitori, è il legame con la cugina Barbara De Angeli, autrice di “Via Curioni 29” dedicato ad Anffas e presentato in Castello il 13 giugno. Questa l’occasione per conoscere il prof. Vergani e scoprire il risultato della sua fatica di appassionato ricercatore che ha rivissuto buona parte degli avvenimenti che riguardano la Grande Guerra, letta attraverso le situazioni estreme vissute dai chirurghi in prima linea. Com’è nata l’idea di un simile, importante lavoro di ricerca? “Il padiglione Zonda del Policlinico, dove lavoro, inaugurato il 1° maggio 1915, già il 24 maggio fu riconvertito per accogliere i feriti dal fronte. Una lapide ricorda il suo ispiratore e direttore, Baldo Rossi. Quella lapide mi ha incuriosito ed ho scoperto storie affascinanti dai risvolti attualissimi che meritavano di essere ricordate. Il nuovo modo di fare la guerra aveva colto impreparati i servizi sanitari militari. Masse di feriti si riversavano nei posti sanitari avanzati, dove i medici cercavano di rabberciare le devastazioni provocate dalle schegge di artiglieria o dalla mitraglia. Soprattutto erano un problema i feriti ‘cavitari’ (cioè i feriti al cranio al torace e all’addome) ed in special modo gli addominali. Sulla base delle recenti esperienze della guerra boera e russo-giapponese, tutti i capi dei servizi sanitari avevano dato disposizione di non operare i feriti all’addome perché quelli operati morivano quasi tutti, mentre qualcuno tra i non operati si salvava. In realtà gli operati morivano perché potevano essere soccorsi solo dopo molte ore, in ambienti di fortuna e da medici non specialisti, mentre quelli che scampavano avevano ferite semplici non penetranti in cavità. Ma questo era ancora da dimostrare, e non c’erano mezzi diagnostici come l’ecografia e la tac. Il mondo chirurgico si divise tra interventisti e astensionisti. Tra gli interventisti c’era Baldo Rossi che riteneva che il problema fosse organizzativo più che clinico e per questo sviluppò delle unità chirurgiche mobili, trasportate su autocarri, dotate di personale esperto e di una baracca operatoria smontabile perfettamente attrezzata, da impiantare a ridosso delle linee per eseguire interventi complessi il prima possibile. Rossi realizzò tre Ospedali Chirurgici Mobili per la Croce Rossa milanese e la Sanità Militare allestì altre sette analoghe Ambulanze Chirurgiche d’Armata. Quelle strutture sono le nonne delle moderne unità mobili, oggi preziose nelle missioni di pace, nelle emergenze umanitarie e nei disastri naturali, o in supporto agli ospedali nelle ondate di pandemia. Il dibattito tra interventisti e astensionisti si protrasse fino a metà del 1917, quando gli ottimi risultati degli interventisti s’imposero. Questa divisione del mondo medico davanti ad un problema totalmente nuovo è giustificata dalla sua complessità e dalle ottime ragioni addotte da entrambe le parti, ma il pubblico può rimanerne sconcertato, proprio come succede oggi, quando si ascoltano i differenti pareri di virologi, epidemiologi e immunologi. Il dibattito, che disorienta i laici, investiti da troppe informazioni in tempo reale, è in realtà una ricchezza che consente di comprendere meglio i problemi e proporre soluzioni condivise a beneficio di tutti”. Quali le fonti principali? Quali gli archivi consultati? “La ricerca, davvero appassionante, si è avvalsa di fonti di prima mano perché desideravo non scrivere niente che non fosse verificato. Così ho consultato l’Archivio centrale dello Stato, e quelli dell’Ufficio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito, dell’Ospedale Maggiore, della Croce Rossa Milanese, dell’Istituto Parri di Milano, del Museo di storia contemporanea, e molti altri. Ho avuto la soddisfazione di ritrovare il ‘diario giornaliero’ dell’ospedale mobile ‘Città di Milano’, che sembrava perduto e ho accumulato molto materiale iconografico inedito. Man mano scoprivo tante storie che si muovevano sullo sfondo della grande storia. In primis, medici e crocerossine, diretti protagonisti spesso volontari, e poi il ruolo poco conosciuto di personaggi più o meno famosi come Toscanini, Bagatti-Valsecchi, il colonnello de Rossi, la medaglia d’oro Fulcieri Paulucci di Calboli. Tra questi c’erano moltissime donne, come la principessa Annamaria Borghese De’ Ferrari, crocerossina e appassionata fotografa, che lasciò un vero e proprio reportage, o Margherita Kaiser Parodi, l’unica donna sepolta a Redipuglia o Anna Torrigiani Fry, “ombra” della duchessa d’Aosta nei suoi continui giri d’ispezione, e morta di malattia contagiosa durante il servizio. E moltissimi altri”. Sembra sia riuscito a ripercorrere personalmente sul posto, i luoghi in cui si sono svolti i combattimenti del Regio Esercito… è così? “Sì, con la scusa di brevi vacanze ho trascinato mia moglie Dominique nei luoghi di azione delle unità mobili. Volevo rendermi conto ‘sul campo’ dell’ambiente in cui agivano. Sul posto si comprendono le difficoltà che i conducenti delle ambulanze dovevano affrontare percorrendo di notte, a luci spente, strade di montagna, tutte a curve, esposte al fuoco, evitando sobbalzi ai feriti. S’intuisce come fosse difficile per i barellieri evacuare i feriti scendendo per chine impervie e passare l’Isonzo, su fragili passerelle di barche, verso un improbabile ospedale ospitato in un tunnel ferroviario che esiste ancora. Una china, un fiume, un divario di quota potevano costare molti feriti e la posizione dei posti di soccorso era importantissima: vicina al fuoco, ma possibilmente (quasi mai) al riparo dalle bombe. Sul posto le testimonianze dei moltissimi diari esaminati diventano vive ed è possibile capire perché migliaia di uomini morissero per minime conquiste territoriali”. Come si possono definire, a distanza di un secolo, la figura del medico in prima linea e i mezzi che aveva a disposizione? Com’era la vita del medico al fronte e qual è la ‘scoperta’ che più l’ha colpita? “Nel libro ho dedicato un capitolo alla descrizione della vita del medico al fronte, attraverso i diari dei protagonisti. E’ un capitolo duro, a tratti è sconvolgente. La vita del medico dipendeva dalla vicinanza con la linea del fuoco. Era molto diverso fare i medici di battaglione, in un posto di medicazione di prima linea dove si riversavano in prima battuta tutti i feriti. Qui medici e soldati di sanità morivano nella stessa percentuale delle loro truppe. Già molto meglio andava negli ospedali da campo o nelle unità chirurgiche mobili che erano subito dietro la linea del fuoco, ma erano sempre gravemente esposti ai bombardamenti aerei o d’artiglieria come avvenne per l’Ospedale Mobile ‘Cassa di Risparmio’ o per le aliquote avanzate di Zagora o Ravne che sotto il bombardamento dovevano continuare la loro opera chirurgica. Da chirurgo è inevitabile immedesimarsi nelle condizioni operatorie di allora. Le attrezzature erano all’avanguardia per l’epoca, ma a noi appaiono davvero minimali. Nessun mezzo diagnostico sofisticato: solo rudimentali apparecchi radiologici. Tutte le ferite erano infette e gli antibiotici non c’erano. L’anestesia era agli esordi con l’etere e il cloroformio. Per sostenere la circolazione s’impiegavano il cognac, la caffeina o la sparteina. Un litro di soluzione fisiologica endovenosa somministrato a un paziente in shock emorragico era considerata una terapia aggressiva: ora noi un litro di fisiologica lo diamo anche ai pazienti che devono prepararsi per una semplice colonscopia. Eppure il dibattito chirurgico era vivace e modernissimo. Quei chirurghi erano dei veri giganti. Osando l’inosabile portarono la sopravvivenza dei feriti addominali operati, che prima morivano tutti, al 38% e importantissime furono le ricadute anche sulla chirurgia di pace. E quando la guerra finì, la loro lotta contro gli esiti della guerra non terminò, perché c’erano i neurolesi e i mutilati da riabilitare. Migliaia di giovani e i loro discendenti devono la vita agli uomini e alle donne degli ospedali mobili e agli ‘imboscati della sanità’. Oggi come allora la sanità, spesso considerata per le sue rughe, si rivela una ricchezza preziosa nei momenti dell’emergenza”. Di quella realtà remota e tragica che costò al popolo italiano ca. 650.000 caduti e un milione di feriti, assistiti da medici militari e volontari, rimane ora questa sua preziosa testimonianza, il contenuto del suo libro sarà anche valorizzato da una mostra fotografica che si terrà al Policlinico di via Francesco Sforza a Milano nel foyer del padiglione Ponti appena restaurato, a partire dal 29 giugno. Enrica Galeazzi
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