ABBIATEGRASSO – Il ‘Movimento Terza Età’ ha invitato lunedì 22, al Centro Mater Misericordiae, lo storico Mario Comincini che ha tenuto una lectio magistralis sulla “peste manzoniana ad Abbiategrasso” proponendo un percorso scandito da numerosi documenti reperiti soprattutto tra le carte di notai abbiatensi dell’epoca. Documenti che dimostrano, ad esempio, che la chiesa di san Bernardino fu costruita a partire dal 1631, grazie ai lasciti degli appestati moribondi. Una delle prime tracce del contagio risale al 28 agosto 1630 ed è la nota di un notaio che scrive di trovarsi nell’abitazione di Maddalena Meraviglia per raccogliere le sue ultime volontà. Il documento inizia con la formula di rito: “Poiché la morte e la vita sono nelle mani di Dio Onnipotente…siate pronti perché non sapete né il giorno né l’ora …”, poi Maddalena dichiara di essere ammalata di sospetta peste, poiché la sua ancella è morta per questo, e lascia 240 lire alla fabbrica della chiesa di San Bernardino e 8 scudi per l’erigenda chiesa di San Rocco. Il precedente 21 il notaio era stato chiamato da Francesco Parea, prudentemente si ferma in giardino e l’ammalato gli detta il testamento dalla finestra, quindi all’aperto con distanziamento. I documenti consultati sono spesso sovrapponibili a quanto raccontato sulla pestilenza dal Manzoni nei Promessi Sposi. Anche ad Abbiategrasso, come a Milano, imperversa la carestia dovuta al continuo passaggio delle truppe alemanne, alloggiate in gran numero alla cascina Morosina e responsabili di ruberie, saccheggi e molto probabilmente portatori della peste, un batterio presente nella pulce dei topi, trasmesso poi da uomo a uomo. Nell’aprile del 1630 la peste non c’era ancora nel borgo, lo prova un’istanza presentata dal venditore di stoffe Francesco Portalupi che, al Presidente della Sanità di Milano, scrive delle precauzioni prese nel borgo per evitare il contagio: alle quattro porte d’ingresso (Nuova, S.Martino, S.Pietro, Milano) era richiesta la ‘Bolletta di Sanità’ da esibire, per certificare che si arrivava da un luogo non infetto. Impossibile non pensare al Green Pass odierno. Portalupi si lamenta di questa Bolletta perché dice che ad Abbiategrasso fanno passare lui ma non la sua merce. Il Presidente gli risponde che deve certificare che anche i suoi tessuti non arrivano da luoghi con la peste. A Milano l’11 giugno 1630, quando da una cinquantina di medici viene ufficialmente dichiarata la peste, le autorità pubbliche deliberano di implorare Dio con una processione solenne con l’urna di San Carlo. 5 giorni dopo, il 16 giugno, Abbiategrasso fa lo stesso, la Confraternita decide il percorso della Processione che parte dalla chiesa di S. Maria Nuova, passa dalla piazza, dal passaggio Centrale (allora detto Stretta dei Cambiago), arriva all’edicola di San Carlo in piazza Castello per una sosta di preghiera e da qui, passando dalla contrada dei Tessitori, ora via Cantù, torna in S. Maria. Subito dopo entrambe le processioni parte il contagio, ad Abbiategrasso il primo focolaio è alla cascina Fontana ed è una strage continua dal 7 luglio al 25 dicembre, come scriverà il prevosto Bernasconi. Albairate e Cassinetta avevano già degli appestati, tra luglio e agosto è il clou dell’epidemia, Milano è descritta come “un cimitero non una città”. Ad Abbiategrasso viene fatto un lazzaretto alla Chiappana perché vicino a una risorgiva che forniva l’acqua. Come a Milano si occupavano dell’assistenza i frati francescani e cappuccini, nel borgo tale compito era affidato ai frati del convento dell’Annunciata. Il 2 settembre il parroco di S. Pietro cita i frati, chiamati ‘zoccolanti’ perché calzano gli zoccoli, che accudiscono alla Chiappana. Ma è Galeazzo Tarantola, un’autorità locale, a chi dobbiamo precise annotazioni delle spese e dei prestiti da lui sborsati, per esempio, per i tre monatti che portano i malati dalle case al lazzaretto e che, essendo guariti, toccano senza paura i morti, violano persino i cadaveri, si appropriano di quanto trovano nelle case. E la casa che venne loro assegnata, finita la peste, risulta che fu disinfettata ‘coi fumi’. Il comune di Abbiategrasso fa poi un contratto con tre medici che devono visitare i malati due volte al giorno se abitano nel borgo, tre volte la settimana se nelle cascine. Vengono considerati sanitari anche i barbieri, che possono eseguire piccoli interventi. Mentre a Milano i lazzaretti erano in muratura, ad Abbiategrasso solo capanne di legno e paglia chiuse in un serraglio per evitare la fuga degli appestati. Al centro, all’aperto un altare, San Carlo aveva chiesto di non celebrare le messe in chiesa ma all’aperto, per evitare il più possibile il contagio. A Milano i giacigli venivano lavati ma nel nostro borgo, essendo di paglia, venivano bruciati. Oltre a quello alla Chiappana, un secondo lazzaretto si trovava al Poscallo, due zone lontane dall’abitato ma facilmente raggiungibili. Entrambi con due comparti: uno ‘brutto’ con i contagiati più gravi in quarantena e uno ‘netto’ per i convalescenti. Ai congiunti dei contagiati, che dovevano stare a casa, veniva inchiodata la porta. In un foglio di un notaio si legge che Giuseppe Vermiglio, un noto pittore di passaggio ad Abbiategrasso, chiede aiuto perché da venti giorni chiuso in quarantena e vuole essere liberato. Difficile quantificare i morti poiché non venivano registrati i funerali, i cadaveri venivano messi in fosse comuni, a strati, ricoperti di calce. In molti testamenti si legge la richiesta di essere sepolti in luogo sacro, per lo più non esaudita. All’inizio del 1631, quando la peste si considera terminata, si incassano i numerosi lasciti dei morti di peste per San Bernardino e San Rocco e iniziano i lavori di costruzione. Secondo una fonte del 1648 le famiglie abbiatensi erano 400 (si tratta di famiglie patriarcali con figli, nipoti, pronipoti, funzionali all’economia del tempo) ma prima della peste erano 600, un terzo degli abitanti era quindi morto. E siccome alla fine del Cinquecento una fonte indica che le famiglie sono 635 e gli abitanti 3219, si può affermare che i morti di peste furono circa un migliaio. L’ultima vittima della peste fu una bambina il 3 febbraio 1631 e il 23 marzo i Confratelli firmano il contratto col capomastro per edificare San Bernardino. Una lezione i cui contenuti, dopo quattrocento anni, presentano analogie sorprendenti con quanto stiamo vivendo. Una pagina di storia abbiatense, recuperata dalla maestria di Mario Comincini e che vale la pena raccontare. Enrica Galeazzi
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