ABBIATEGRASSO – Incontri come quello organizzato per sabato mattina dal Movimento Terza Età di Abbiategrasso, in collaborazione con Acli, AC, Cl, sono rari. Il deus ex machina Cesare Giocondi ha avuto la brillante intuizione di invitare il dott. Antonio Guaita per sviluppare il tema della Diocesi: “Riscopriamo e valorizziamo i nostri talenti” attraverso l’esperienza vissuta e testimoniata. Con l’umiltà che rende ancora più grandi e che solo le persone di valore possiedono, Antonio Guaita si è raccontato dopo il momento di preghiera guidato dal referente spirituale Mons. Franco Cecchin e l’introduzione di Carlo Riganti, responsabile diocesano del Movimento. Il dott. Guaita ha iniziato a parlare di sé come gli è stato chiesto, senza nascondere il suo imbarazzo: “Preferirei parlare di cellule, di argomenti scientifici più che di me, quello che accompagna la vita, non una sola, visti i cambiamenti epocali. Mi sono rivisto ragazzo quando non avevo la televisione, il riscaldamento era con la stufa su cui si cucinava. Ho vissuto a Rimini e a Nervi seguendo mio padre che faceva il calciatore (Spal e Genoa, dopo 6 anni all’Inter), poi siamo tornati a Vigevano dove avevamo galline, oche. Ricordo che negli anni ’50, quando aprì un fruttivendolo, mia nonna si stupì prevedendo che non ci sarebbe andato nessuno visto che tutti avevano un orto. Le strade non erano asfaltate e in estate passavano a bagnarle perché non si alzasse la polvere e la nonna mi raccomandava di stare attento a non finire sotto qualche bicicletta. Il mondo, la nostra vita, ha subito molte trasformazioni, ci costringe ad acquisire nuove abilità, conoscenze, nuovi linguaggi. Eravamo solo 2 famiglie sulla via ad avere un telefono, disponibile anche per i vicini. Pur nel segno della continuità ognuno di noi ha una vita irripetibile. Giocondi mi ha chiesto da dove è nata l’idea di fare il geriatra, questa domanda mi ha dato modo di riflettere. Da bambino ho vissuto di più con mia nonna, il papà calciatore era in giro, la mamma, maestra montessori, insegnava a Voghera a ragazzi svantaggiati, era la nonna il mio unico punto di riferimento. Viveva con noi, ma prima che mio nonno morisse ucciso dal calcio di un cavallo, conduceva una cascina vicino a Vigevano, dove ora c’è il campo da golf. L’incontro con la vecchiaia quindi ha radici lontane, in mia nonna. Abitavo vicino al piazzale fiera e incontravo spesso gli anziani ricoverati al De Rodolfi che, seduti sulle panchine, facevano domande a noi ragazzi e ci raccontavano la loro storia. Persone nate nell’800, mi affascinavano le loro storie che ci aiutavano a crescere e ci mettevano in contatto con la realtà che sposava la storia e il mondo della fiaba. Ho fatto il liceo classico Cairoli a Vigevano, di domenica avevo scelto di andare a trovare gli anziani del De Rodolfi. Dopo il liceo avevo idea, condivisa dai miei familiari, di iscrivermi alla facoltà di Lettere per insegnare. Sono partito in corriera da Vigevano per andare ad iscrivermi all’Università di Pavia, durante il viaggio di oltre un’ora mi sono chiesto cosa volessi davvero fare e ho pensato che sarei stato più utile come medico, è emerso l’imprinting quando ho dovuto fare una scelta. Avevo vinto un posto di collegio gratuito, per tutta la durata degli studi a Pavia, ma avevo l’obbligo di mantenere la media del 27 agli esami. Ho lasciato il collegio prima della laurea, quando mi sono sposato con Giuliana, ora sono 50 anni di matrimonio. Lei è un altro dei motivi per cui mi sento scandalosamente fortunato! Aveva perso il padre e già insegnava lettere alle medie. Durante gli anni dell’università, l’impegno nel Movimento Studentesco mi ha aiutato a capire che per la giustizia sociale bisogna mettersi in gioco. Ero innamorato di Spinoza, delle sue riflessioni sull’uomo che non agisce solo in base alla razionalità ma alle emozioni. Diceva però che tutte le volte che scegliamo in base alle emozioni sbagliamo e concludeva che ‘di fronte alla sofferenza non si deve né ridere né piangere ma capire’. Studiare è un modo di capire, se si vogliono aiutare le persone. Mi sono laureato in medicina del lavoro per stare vicino agli operai, ma è stata una gran delusione perchè era soprattutto un lavoro burocratico. Nel frattempo tramite l’amico medico Giorgio Forni ho iniziato a fare notti di guardia al Golgi, dove ho conosciuto il direttore Renzo Giocondi e il direttore sanitario Ugo Cavalieri. Sono rimasto folgorato, ho iniziato nel ’74 e ora sono 48 anni che sono qui, ad Abbiategrasso. Sono anch’io la dimostrazione che si diventa ‘anziani’ a un’età sempre maggiore, infatti ho 74 anni e lavoro ancora 10 ore al giorno: 48 anni a lavorare nello stesso posto possono sembrare una noiosa continuità, invece per me è stata una continua avventura dello spirito, piena di continue novità. La diversità più grande che ho trovato nella cura dei malati cronici rispetto all’esperienza in ospedale, dove le persone vengono curate e non le vedi più, è che se stai con gli anziani fino alla morte, il tuo ruolo non è di guarire ma di far convivere al meglio con la malattia, aumentando il benessere delle persone. Ho insegnato per tanti anni alla scuola infermieri, dove la responsabile soleva dire che occorre ‘sapere, saper fare, saper essere’; penso che oggi quest’ultima sia la più importante, occorre essere empatici per insegnare alla gente a curarsi. Negli anni ’90 ci siamo scontrati con la demenza che sempre più spesso accompagnava la non autosufficienza fisica. Cosa fare? Un incontro importante è stato con Moyra Jones e la sua intuizione che, come con una persona che ha perso qualcosa nel fisico si può sopperire con una protesi, si deve trovare una ‘protesi’ anche per le funzioni cerebrali perse, per dare dall’esterno un aiuto a quello che manca all’interno. ‘Protesi’ del cervello sono: la modifica dello spazio (dal 2000 il reparto Alzheimer del Golgi è un modello per tutti), come persone essere un sostegno uno per l’altro, adattare continuamente le attività da fare. Questo ha comportato portare avanti molti studi e collaborazioni, come quella con l’Università di Milano e Pavia e con l’istituto Besta. Nel frattempo grazie alla Fondazioni Cenci-Gallingani nasceva il progetto e poi la concreta possibilità di realizzare il nostro centro di ricerca. Nel 2008 sono andato in pensione per occuparmi a tempo pieno di questo progetto. Dal 2009 seguiamo 1300 persone residenti ad Abbiategrasso nate tra il 1935 e il ‘39, nel 2022 è la quinta volta che li richiamiamo per proseguire nell’indagine. Questa attività di valutazione di tante persone ha permesso di produrre una banca di dati e di campioni biologici a cui possono accedere altri centri di ricerca. Nel mio cammino però non credo più tanto nella frase di Spinoza: ‘Non bisogna né piangere né ridere, ma capire’ perché ora penso che se non piangi con chi piange, se non condividi, non capisci”. Non meno interessanti le domande poste e le risposte di Antonio Guaita che ha incarnato oltre ogni aspettativa il ‘testimone’ di una vita talentuosa, dedicata a rispondere ai bisogni dei propri simili e l’ultimo, ennesimo prezioso consiglio a chi ascoltava è stato: “Uscite di casa, il vero problema è la solitudine, sviluppate le relazioni che sono sempre meno, abbiamo più rapporti con la tv che con i vicini. Dobbiamo combattere la solitudine degli anziani e anche quella dei giovani”. Un grande grazie al dott. Guaita e al Movimento Terza Età che compie solo… 50 anni! E.G.