Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a votare il referendum sulla legge di riforma costituzionale che interviene su 47 articoli della Parte II della nostra Costituzione.

Io voterò No per una ragione di metodo ed una di contenuto.

Quella di metodo è il modo in cui è stata fatta la riforma.

L’attuale Parlamento -che ha approvato la riforma costituzionale sulla quale andremo a votare- è stato eletto con una legge elettorale definita dal suo stesso proponente “una porcata” (e, quindi, nota con il nome di porcellum) che la Corte Costituzionale -con sentenza n.1/2014- ha dichiarato incostituzionale.

Due le ragioni di incostituzionalità, entrambe su aspetti di gran­de rilievo: il primo per la mancata previsione per l’elettore di espri­mere un voto di preferenza, con la conseguenza che gli eletti sono scelti dalle segreterie dei partiti politici e non dagli elettori, il secon­do per l’attribuzione di un premio di maggioranza tale da premiare oltre il limite della ragionevolezza il partito che ottiene il maggior numero di voti.

La legge elettorale è stata, quindi, dichiarata incostituzionale non per un qualche vizio di forma o di secondaria importanza, ma per violazione di principi basilari della nostra Costituzione.

Se è vero che la Corte ha voluto precisare che le leggi già approvate da questo Par­lamento non divenivano incostituzionali e che pure il me­desimo poteva continuare a legiferare, dubbi molto seri possono nu­trirsi sulla legittimazione politica (più che giuridica) di questo par­lamento ad approvare una così ampia riforma costituzionale.

Insomma, un Parlamento eletto con legge incostituzionale, che ha “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale), non è legittimato a modificare la Costituzione che, ricordiamo, fu approvata nel 1947 con 458 voti favorevoli (e solo 62 contrari) da un’Assemblea Costituente scelta e legittimata dai cittadini.

La critica del contenuto della riforma costituzionale è la seguente.

Anzitutto la riforma costituzionale è connessa alla nuova legge elet­torale per l’elezione della Camera dei Deputati,  la n. 52/2015 denominata “italicum”, che sostanzialmente riproduce le norme del porcellum.

L’accoppiata italicum – revisione costituzionale rende evi­dente come il vero obiettivo delle riforme sia lo sposta­mento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo.

In estrema sintesi, l’italicum stabilisce che la lista (non la coalizione) che raggiunge il 40% dei suffragi al primo turno venga premiata con 340 seggi (ovvero con il 54% dei seggi disponibili), contro i 290 seggi che potranno al massimo essere conquistati dall’opposizione.

Se nessuna lista raggiungesse il 40%, si prevede un turno di ballottaggio tra le due liste più votate (senza possibilità di apparentamenti formali): il vincitore raccoglierà (ancora) 340 seggi. I partiti che decidessero di “correre da soli” devono invece raggiungere almeno la soglia del 3% per ottenere una rappresentanza.

Il voto dell’elettore s’intende dato per il capolista (bloccato). Inoltre, ciascun capolista potrà presentarsi in più collegi, fino a un massimo di 10. Se eletto in più collegi, dovrà “optare” per uno di essi, cioè scegliere in quale essere proclamato (lasciando il posto al primo dei non eletti negli altri collegi).

L’accoppiata italicum-riforme costituzionali, pertanto, consente ad una lista che in sede di ballottaggio abbia raggiunto anche solo il 20-25% dei voti di ottenere la maggioranza dei seggi alla Camera, continuando a prevedere uno sproporzionato premio di maggioranza. Il vero obiettivo che muove la sua approvazione è quello di gestire il potere senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi.

L’abnorme premio di maggioranza (che nei paesi dell’Unione Europea ha solamente l’Ungheria di Orban) unitamente alla mancanza di una soglia di accesso al ballottaggio rende l’italicum chiaramente incostituzionale.

In definitiva, un solo partito con pochi consensi reali nel Paese potrebbe avere in Parlamento una maggioranza blindata, mentre tutti gli altri soggetti politici, che pure assommano nel totale maggiori

consensi, dovrebbero dividersi i seggi rimanenti.

 

La riforma costituzionale prevede poi che questa maggioranza (fittizia) di eletti – che rappresenta una minoranza di elettori – voti la fiducia al Governo e faccia le leggi ordinarie. Non solo. Con ben 340 seggi alla Camera potrà anche: influenzare l’approvazione delle riforme costituzionali; dichiarare lo stato di guerra (spetta alla sola Camera e sono sufficienti 316 voti, cioè la maggioranza assoluta dei membri); decidere su amnistia e indulto (spetta alla Camera e servono 80 voti in più di quelli assicurati dal premio); derogare alle competenze regionali in nome dell’interesse nazionale; imporre alla Camera una votazione a data certa su un proprio disegno di legge; decidere i regolamenti parlamentari; precisare il contenuto dello statuto delle opposizioni, che dovrebbe tutelare le minoranze parlamentari ma – come ogni altro regolamento parlamentare – è destinato ad essere approvato a maggioranza assoluta; condizionare l’elezione degli organi di garanzia, quali il Presidente della Repubblica, i membri del Consiglio Superiore della Magistratura e i giudici della Corte costituzionale.

Tutto è sacrificato alla logica della stabilità, della go­vernabilità, della velocità del “decidere“. Insomma, la volontà è quella di trasformare il Parlamento in un Consiglio comunale di un tipico piccolo comune italico. Ma i disastri di questi sindaci-satrapi sono sotto gli occhi di tutti.

La riforma costituzionale intende cambiare 47 articoli della Co­stituzione (vale a dire, più di 1/3 del totale).

Anzitutto, la composizione del Parlamento.

La Camera continua a essere composta da 630 de­putati. Cambia invece la composizione del Senato, che da 315 membri scende a 100  così suddivisi: – 74 consiglieri regionali, eletti dai Consigli regionali (oltre che da quelli provinciali di Trento e Bolzano); – 21 sindaci, eletti dai Consigli regionali (oltre che da quelli provinciali di Trento e Bolzano) fra tutti i sindaci dei Comuni della Regione e nella misura di uno per ciascuna; – 5 senatori, nominati dal Presidente della Repubblica con mandato di 7 anni non rinnovabile.

A cambiare sono, però, soprattutto le modalità di scelta (che non sono più rimesse direttamente agli elettori, ma passano per il “filo rosso” dei consigli regionali secondo tre criteri, tra loro fortemente contraddittori ed ambigui).

Un punto molto delicato riguarda la natura della rap­presentanza senatoriale.

Il nuovo art. 55, co. 5, Cost. dice che “il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali” (la rappresentanza “della Nazione” è riservata ai soli deputati). Ma cosa significa, esattamente, rappresenta­re le “istituzioni territoriali“? Nessuna norma lo specifica.

Inoltre, i 95 senatori con incarichi nelle istituzioni territoriali non dovranno dimettersi dalla loro funzione di consigliere regionale o di sindaco, ma continueranno a svolgerla part-time.

La durata del mandato di senatore coinciderà con quella di consigliere regionale e di sindaco. Avremo, quindi, un Senato a formazione progressiva, soggetto a variazioni continue in ragione delle diverse scadenze degli organismi territoriali.  In conclusione, che cosa dovrebbe rappresentare e come dovrebbe funzionare il nuovo Senato non è, in definitiva, affatto chiaro. (Continua sul prossimo numero…) Gianluca Gatti, Associazione Futura, Gaggiano