ABBIATEGRASSO – Auditorium del Quartiere Fiera affollato venerdì mattina di giovani, gli studenti delle classi quinte degli istituti superiori abbiatensi, per una lezione di storia speciale. Per due ore filate il silenzio regna nella grande sala, segno che quella lezione è davvero interessante e non lascia spazio alla distrazione. A raccontare una triste pagina della nostra storia, gli orrori di un passato che si spera non ritornino nel nostro presente, è l’ex deportato Venanzio Gibillini, “Giba” per gli amici, sollecitato dalle domande di Pucci Paleari, storico e documentarista. Dopo i saluti e i ringraziamenti dell’assessore alle Politiche Educative Eleonora Comelli, dopo un pensiero dedicato al nostro concittadino Pierino Trezzi, anch’egli ex deportato, deceduto qualche anno fa, Pucci colloca su un’immaginaria linea spazio-temporale la nascita dei lager nazisti, dal 1933 al 1944, il primo a Dachau in tempo di pace, seguito da Mathausen, Auschwitz, Birkenau, Natzweiler-Struthof e, dopo l’8 settembre ’43, in Italia la Risiera di San Sabba a Trieste, Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Fossoli (Modena) e Bolzano. “Giba” inizia, quindi, il suo racconto. Ha appena 19 anni quando il 4 luglio del ’44 viene arrestato dai fascisti a Milano come disertore per non aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana e incarcerato a San Vittore, V raggio, cella 62., dove rimane fino al 27 agosto, fra interrogatori, controlli del terribile Franz e notizie che gli giungono dall’esterno tramite dei bigliettini, che poi ingoia; viene così a conoscenza dell’eccidio di piazzale Loreto e di sua madre che è andata a vedere se fra i 15 fucilati ci fosse anche il figlio. Viene poi trasferito nel campo di Bolzano e immatricolato con il numero 3111 nel blocco D, dove rimane fino al 5 settembre, quando in una sessantina vengono stipati in un vagone merci, che in due giorni e due notti in condizioni pietose, senza cibo, senza acqua, in uno spazio ridottissimo, con un angolino adibito ai bisogni di tutti, li fa giungere a Flossenburg. Lì un interprete dice loro che per l’ultima volta saranno chiamati con il loro nome, ad identificarli ci sarà un triangolo ed un numero; a “Giba” tocca, insieme al triangolo rosso come dissidente politico e alla sigla IT, il numero 21626, ed è meglio impararlo presto a memoria e in tutte le lingue possibili per riconoscerlo durante la chiama, altrimenti sono nerbate. Nella tendopoli sono costretti a spogliarsi completamente per la depilazione in tutto il corpo e la rasatura dei capelli, atti di grande umiliazione per l’alto senso del pudore di quei tempi, atti che tolgono dignità alla persona nel dirle brutalmente che deve lasciare tutto ciò che ha. Dopo una doccia con acqua gelida e bollente alternata, rivestiti di stracci e sorvegliati dai kapò, fuori al freddo passano alla selezione di un medico, che decide chi può lavorare e chi no. I giorni trascorrono fra le mille difficoltà della vita quotidiana, finché viene trasferito a Kottern, sottocampo di Dachau, a lavorare in fabbrica come aggiustatore. Fra i ricordi di quel periodo, ci sono il famigerato numero 116361, il golfino grigio con il triangolo rosso usato anche come cuscino e un pezzo di alluminio, usato come cucchiaio, con le scritte incise Milano e Mamma. Nel ’45 arriva finalmente la liberazione e “Giba” il 27 maggio torna a casa a Milano: è uno dei 4500 italiani sopravvissuti dei 45mila deportati. Per 25 anni non parla più di deportazione, poi torna con la moglie in visita a Dachau e decide di raccontare alle nuove generazioni nelle scuole la tragica esperienza vissuta nei lager. “Posti di morte – conclude “Giba” – Io ho avuto la fortuna di sopravvivere. La libertà bisognerebbe rispettarla e conservarla ogni giorno”. Il racconto di tante atrocità finisce, si allenta la tensione dell’ascolto e scroscia un applauso liberatorio. Ma il lavoro di insegnanti e studenti continua per trasformare quanto si è imparato dalla lezione odierna in atteggiamenti di vita di ogni giorno. E agli insegnanti viene rivolto un invito con le parole di un preside scritte all’inizio di ogni anno scolastico in una lettera ai suoi docenti: “Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani”. M.B.