ABBIATEGRASSO – Abbiamo intervistato  Luca Cairati, direttore artistico della “Città ideale- Le Strade del Teatro” tenutosi nell’intera giornata di sabato e della scuola Teatro dei Navigli.
La Città Ideale del Teatro Urbano anche quest’anno ha regalato grandi emozioni, coinvolgendo tantissime persone: è soddisfatto di come è andata?

 

“Sì siamo soddisfatti perché abbiamo registrato un’ottima affluenza di spettatori che hanno saputo cogliere le diverse sfumature e i linguaggi dei diversi spettacoli teatrali. Il nostro è un pubblico eterogeneo e sono molte le persone che provengono da fuori con l’intento di usufruire di spettacoli internazionali di buona qualità, capaci di offrire uno spaccato sulle diverse culture e sul diverso modo di intendere il teatro urbano”. “Ogni spettacolo ha una sua anima e un suo linguaggio ed è capace di creare una vibrazione con il pubblico. Uno degli elementi fondamentali di qualsiasi performance teatrale consiste nella drammaturgia anche quando la parola è assente. La drammaturgia dei corpi, delle emozioni, del dialogo silente che nasce con il pubblico crea un testo invisibile che ogni volta mostra la sua unicità”.

Come ha scelto i vari spettacoli?

“Molti spettacoli li avevo visti dal vivo nei vari festival che sono solito ammirare sia a livello nazionale che a livello europeo, e molti altri essendo nuove produzioni li abbiamo ospitati sulla fiducia conoscendo il livello delle compagnie che li allestivano. Ogni anno cerchiamo di proporre compagnie nuove, perché ci piace raccogliere nuove sfide e non limitarci a programmare compagnie storiche dal facile e sicuro effetto”.

Quale spettacolo l’ha più stupita?

“Ho sicuramente amato il lato più arcaico e popolare della compagnia degli Afuma che ci ha fatto respirare un teatro tribale, giocato unicamente sull’energia e sulla sua forza rituale. I suoni ipnotici di quei tamburi, quelle figure umane trasfigurate dalla plasticità di quei trampoli grezzi che sembravano spingere gli attori verso il cielo alla ricerca di una spiritualità magica da condividere con il pubblico resteranno sicuramente come una delle immagini forti di questo festival. Allo stesso tempo ho amato follemente la comicità matematica dei Lucchettino frutto di una grande tradizione del teatro all’italiana. Tradizione che conosce molto bene la bravissima Margherita Antonelli che ha saputo coinvolgere e divertire un pubblico desideroso di vivere il confine sospeso fra la quotidianità e il pensiero filosofico del suo meraviglioso personaggio. E come non ricordare la lucida follia degli Lpm che hanno dato vita a uno spettacolo che è rimasto nel cuore di molti spettatori”.

Abbiamo potuto ammirare artisti da tutto il mondo, sicuramente un valore aggiunto…

“Il teatro è sicuramente una disciplina che per sua natura sviluppa l’ascolto, l’integrazione e il rispetto reciproco. E’ uno strumento che le città possono utilizzare per compiere un importante lavoro sulla collettività.  Permette di far incontrare le diverse fasce sociali e culturali di una città e di favorirne un punto di incontro e scambio. Consente di veicolare cultura e conoscenza da una prospettiva differente, di aumentare la percezione della qualità di vita di un territorio, e di favorire lo sviluppo personale di chi ne fruisce”.

Alcuni spettacoli sono stati molto acrobatici, cosa distingue una esibizione teatrale da uno spettacolo puramente acrobatico? Esemplificativi in tal senso i Kolo Colo…

“Il teatro urbano sposta le lancette di quello che la nostra mente ritiene umano o possibile.

Certi numeri che ammiriamo eseguiti con estrema facilità sono frutto di anni di dure prove, un lavoro continuo e costante al quale i performer si sottopongono. Il pubblico oltre ad apprezzarne l’estetica e l’aspetto emotivo di quello che accade sulla scena a livello inconscio ne respira la sacralità di quell’atto. Lo spettacolo dei Kolo Colo ad esempio l’ho amato molto, e non è sicuramente uno spettacolo immediato ma sa conquistarti con il tempo, la lentezza iniziale del ritmo e delle azioni, serve a cadenzare la quotidianità di un comune bar di periferia, una periferia abbandonata e vissuta da uomini emarginati che con i loro corpi raccontano una vita piena di fatiche e difficoltà. E nella routine delle azioni che si ripetono ogni giorno in quel bar si cela la possibilità che possa affiorare un mondo immaginifico in cui i corpi si librano a metri di altezza, vincendo e sfidando le leggi della natura. Con infinità tenerezza quello spettacolo voleva ricordare a tutti noi che nelle difficoltà, nell’infelicità o semplicemente nella ripetizione continua del nostro vivere quotidiano si cela sempre il meraviglioso e sta a noi a coglierlo e farlo vivere”.

E’ stato impegnato su più set, un lavoro svolto con passione e con fatica… Come vede il futuro del Festival?

“Il festival ha 23 anni e siamo costretti tutti a compiere una seria riflessione: o lo si fa crescere o lo si trasforma in qualcosa d’altro.  Per quanto la reputo una forma meno avvincente, credo che nel futuro si dovrà tornare a una formula di 5-6 spettacoli spalmati in un mese e mezzo. Perché diventa impossibile gestire 18 compagnie con le loro richieste tecniche e farle coincidere con tutte le normative di sicurezza.  Assumendo inoltre responsabilità che invece andrebbero condivise a più livelli”. Luca Cianflone