GAGGIANO – “Lo chiamavano Manajetta. Storia di un’impiccagione a Gaggiano e appunti sulla criminalità in Lombardia tra Sette e Ottocento”.
Si intitola così il libro che è stato presentato al Centro Socio L. Taverna di Bonirola domenica 4 dicembre. I temi principali che si snodano lungo le pagine di questo testo sono frutto del lavoro di Aurelio Citelli, membro dell’Associazione Culturale Barabàn, gruppo che da anni si occupa soprattutto di musica e cultura popolare attraverso la ricerca di fonti scritte.
In questo caso parliamo di una “cultura a km 0”, per usare un’espressione utilizzata da Giuliano Grasso, altro esponente della stessa associazione, che durante l’incontro era seduto a fianco dell’autore. “Vedendovi qui oggi, noto che questa cultura – ha continuato – attira ancora abbastanza gente da riempire una sala, nonostante viviamo in tempi dove si prediligono altre forme di comunicazione”. Aurelio Citelli ha raccontato come è maturata in lui l’idea di scrivere sulla criminalità che imperversava in un determinato periodo nel nostro territorio: “Tra le carte d’archivio stavo cercando delle informazioni in merito a una famiglia di Bonirola. A un tratto mi sono trovato davanti una sentenza di morte ai danni di un certo Manajetta per una rapina avvenuta nel 1833 sulla Vigevanese, tra un paese che non esiste più, Gaggianello, e il Ponte della Bonirola (distrutto nel 1859 durante lo scontro tra truppe austriache e franco-piemontesi). Una scoperta che mi incuriosì talmente tanto da voler approfondire il contesto storico di questo fatto”. Durante il suo lavoro, ha affermato, sono emerse notizie importanti sul fenomeno del brigantaggio in Lombardia, lungi dall’essere un movimento esclusivamente concentrato nel Mezzogiorno immediatamente dopo l’Unità d’Italia.
Qui, invece, siamo nella zona del Lombardo-Veneto durante il periodo della Restaurazione. “Dalle nostre parti il problema della criminalità di strada era all’ordine del giorno. Andando verso la valle del Ticino, in piena campagna, i banditi potevano facilmente nascondersi tra boschi e fossati. Le vittime predilette erano i fittabili delle cascine: le loro proprietà venivano assalite sempre di notte e il loro bestiame sterminato. A peggiorare le cose erano i codici penali del tempo, che erano arretrati e prevedevano punizioni tipicamente medievali”. In questo quadro si consumò il delitto. La sera del 15 giugno 1833 due viaggiatori, il fittabile Giulio Giussani e il cappellano Domenico Pasini, vengono assaliti da un delinquente con una mannaia (da qui il soprannome ‘Manajetta’). La rapina frutta pochissimo: 43,49 lire austriache.
In un solo quarto d’ora il criminale viene subito arrestato. L’uomo braccato dalla polizia si chiamava al secolo Carlo Bettoli, un giovane muratore di 22 anni, proveniente da un comune montano. Allora, e solo in Lombardia, vigeva il processo statario (una sorta di tribunale militare) anche per i reati di strada. Funzionava così: il processo avveniva entro tre giorni e, in caso di colpevolezza, il reo veniva mandato alla forca, alla ghigliottina o alla fucilazione nel posto dove era avvenuto il reato.
Erano tempi dove non esisteva l’appello. In questo caso il giudizio è avvenuto al Palazzo della Torretta. In seguito, il ladro venne condotto da un corteo, con i giudici, il boia e i religiosi. Dopo l’impiccagione, il suo corpo rimase appeso fino al tramonto e poi sepolto nelle vicinanze di quel punto, dove ora ci sono dei negozi. I condannati a morte non venivano mai seppelliti al cimitero.