ABBIATEGRASSO – L’Eco della Città ha pubblicato un post per ringraziare gli Infermieri, in prima linea a gestire la pandemia, a fornire assistenza e trattamenti terapeutici. Affrontano ogni giorno ogni tipo di emergenza e sono sottoposti a sforzi e pressioni notevoli. Grazie a tutti gli Infermieri! In molti hanno lasciato like e commenti, l’Eco pubblica ora due interviste a due infermiere, una lo è da 30 anni, l’altra ha iniziato la professione proprio durante il Covid.

Irene Artusa infermiera a 23 anni durante il Covid

Irene si è laureata in Infermieristica il 29 ottobre 2020 e dopo solo due giorni è entrata in servizio all’Ospedale San Paolo nel reparto di Chirurgia-Week surgery durante la seconda ondata Covid. Poi cos’è accaduto?Ad una sola settimana dal mio inizio, sono stata catapultata in una realtà più grande di me, più grande di chiunque, figuriamoci per una neolaureata alle prime armi con le nuove responsabilità. L’8 novembre ho iniziato a lavorare in Malattie Infettive: un reparto totalmente Covid, che si occupava di pazienti in casco CPAP, maschera Venturi o Reservoir o NIMV. Tutte cose che avevo fino ad allora solo studiato sui libri o sulle slide dell’università. Un conto è vedere com’è fatto un casco CPAP, un altro conto è saperlo montare, posizionarlo ad un paziente che senza non respira, farlo tollerare ad un paziente che senza non respira. Un paziente Covid con il casco è un paziente accessoriato di tutti quei presidi quali sondino nasogastrico, catetere vescicale, molte linee infusionali e tanto altro, tutte cose che ho dovuto imparare a gestire contemporaneamente in men che non si dica. Non nego che i primi giorni tornavo a casa piangendo. Da fuori non ci si immagina cosa si possa vivere in quei reparti. L’assistenza prevedeva anche videochiamate con i familiari, ovviamente, e puntualmente ad ogni videochiamata il crollo emotivo era inevitabile, anche per l’operatore meno sensibile (anche se non era il mio caso, anzi). La tutina bianca, i calzari, il triplo paio di guanti, la doppia mascherina, la visiera e la cuffia, tutte ciò ci difendeva, anche se a volte non bastava, e ci permetteva di toccare, abbracciare e provare ad alleviare sofferenze e mancanze di persone che non vedevano i propri cari da giorni, settimane o mesi. Io me le stringevo forte quelle persone, convinta che per loro fosse una vera e propria terapia. Tante volte mi sono sentita impotente davanti a tanta sofferenza, incapace di aiutare, di assistere. È stata una doccia fredda questa prima esperienza lavorativa, che mi ha permesso di imparare moltissimo, in pochissimo tempo. Se non avessi toccato con mano quello che gli ospedali che accolgono pazienti Covid stanno facendo da più di un anno a questa parte, sono sicura che non avrei avuto le consapevolezze e le accortezze che ho ora. Per i primi mesi, fino a quando ho ricevuto a gennaio la prima dose del vaccino, ho cercato di preservare i miei genitori e i miei familiari per quanto possibile: mangiavo e passavo il tempo libero nella mia cameretta, usavo i servizi al piano di sopra separata da loro, salutavo i nonni dal balcone. La paura era tanta, la consapevolezza che abbassare la guardia poteva essere un passo falso fatale ancora di più”. Le tue parole fotografano la realtà drammatica vissuta e commuovono, com’è ora la situazione? “Oggi sono infermiere nel reparto di Chirurgia toracica in IEO. Mi si è presentata l’opportunità ed ho accettato. IEO mi ha vista come paziente ormai 4 anni fa, ed è stato un po’ il mio punto di inizio, il via di quella che sarebbe poi diventata la mia scelta di studio e di professione. In IEO ho incontrato medici ed infermieri che mi hanno aiutata, guarita e supportata; proprio nello stesso anno (2017) sono entrata in Infermieristica ed ero certa che un giorno avrei dovuto provare ad essere dall’altra parte rispetto a quella della paziente che sono stata. È per questo che ad aprile non ho potuto rifiutare la proposta, consapevole di lasciare ottimi colleghi, l’ospedale che mi ha formata e un reparto che mi ha fatto crescere professionalmente e umanamente, ma conscia del fatto che oltre al Covid ci sono tante altre malattie che mettono le persone alle strette con la vita. A 24 anni ho ancora tanta esperienza da fare e le opportunità devo coglierle tutte, soprattutto le migliori e penso che questa sia una di quelle.  Tra i miei obiettivi vi è quello di conseguire la laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche, per specializzarmi e tenermi aperte porte sul futuro, così che possa essere sempre stimolante e coinvolgente”. 

 

Anna Lovatti da 30 anni lavora in ospedale

Anna, perché ha scelto questa professione? “E’ stata una scelta in età adulta ma per questo ponderata e ragionata. Il titolo di studio magistrale non mi soddisfaceva, una mia amica mi ha parlato di questa possibilità del corso per infermieri e sinceramente l’ho seguita un po’ per emulazione, un po’ per piacere di studiare, capire e anche perché sentivo che era un campo in cui si poteva dare, aiutare, crescere, esser soddisfatti, stanchi ma felici di aver aiutato il prossimo e… confrontarmi con momenti  belli e felici, ma anche tristi, e a contatto con la morte. La mia esperienza lavorativa è iniziata in Liguria, nell’estremo ponente, perché io abitavo là”. Che cos’è cambiato nel tempo? “Tante cose sono cambiate da quando ho iniziato a frequentare il corso…Innanzi tutto l’infermiere era rispettato dai pazienti e dai parenti poiché era il tramite, era colui che traduceva ciò che diceva il medico. I turni generalmente erano fissi e cadenzati in: Mattino, Pomeriggio e Notte, e non esistevano i computer, per cui tutte le richieste erano da compilare manualmente  su appositi moduli. C’era quello per le consulenze specialistiche, quello per la farmacia, quelli per gli esami ematici, i radiologici… regolarmente da ripristinare perché per ogni paziente c’era una gran quantità di richieste da espletare giornalmente. La vita del reparto e i relativi turni iniziavano e finivano con la lettura e scrittura della consegna sul Registro, elenco di cose da fare per ogni singolo paziente, appunti generali di particolare importanza per quel giorno o per i successivi, oppure  semplicemente si annotava che tutto andava bene. Letta la consegna si partiva per il giro letti, le degenze erano infinite, alzare un paziente dopo un intervento? Passava almeno una settimana…Medicazioni, terapie, preparazioni di esami specialistici, accoglienza in reparto, preparazioni agli interventi chirurgici, sorveglianza pre e post intervento, assistenza alle visite specialistiche. Il medico durante il giro visita scriveva la terapia… sempre o quasi con una calligrafia illeggibile e allora dal nostro registro si trascriveva la terapia di ogni singolo paziente sul relativo registro di terapia,con la possibilità di  rischio errori di trascrizione. Mi ricordo che nel preparare le flebo spesso dovevamo usare il seghetto per spezzare le fialette dei farmaci e per fretta a volte si cercava di non usarlo, ma le fiale si rompevano e spesso ci si feriva i polpastrelli. I deflussori delle flebo non avevano il raccordo luer loch che adesso permette la chiusura, ma aveva un rettangolino di alluminio che si metteva attorno al deflussore e si piegava ma troppo spesso si rompeva e così si doveva sostituire nuovamente tutto il deflussore dalla flebo…Si usavano i termometri a mercurio e non ne avevamo mai tanti quanti i pazienti, li lavavamo e tenevamo con cura  in  contenitori con alcool, anche  perché la Farmacia centrale non era così provvida nel reintegro e la Caposala spesso ci redarguiva per la continua richiesta di termometri mancanti…Curavamo molto la pulizia degli ausili del malato, i letti non erano motorizzati come li troviamo oggi in un qualsiasi reparto di degenza, allora la movimentazione era a manovella, i letti motorizzati erano  per reparti specialistici come la rianimazione. Si iniziava però a capire l’importanza della Formazione e della frequenza dei corsi di aggiornamento, si puntava soprattutto con le nuove generazione di Infermieri che entravano nei reparti. Oggi esser Infermieri implica lavorare operando secondo quelle evidenze dettate dalla scienza e dall’etica del lavoro. Il paziente é parte del processo  assistenziale al fine del raggiungimento della qualità di un percorso mirato al bene primario: la salute. La cosa che però mi ricordo con tanto rimpianto è l’umanità che c’era, il rispetto che avevamo noi per i pazienti e i malati ed i loro parenti per noi… come in questo anno appena trascorso nei primi mesi di pandemia sentire la vicinanza di tutti al personale operante nelle strutture ospedaliere”. E.G.