ABBIATEGRASSO – Carlo Vichi se n’è andato a 98 anni, lunedì 20 settembre. La notizia è rimbalzata ovunque ed è stata ripresa da tutti i quotidiani e dal mondo della finanza che ha omaggiato il geniale imprenditore. Di lui serbano ricordi indelebili migliaia di ex dipendenti, anche intere famiglie che hanno lavorato in Mivar. Molti hanno espresso la loro riconoscenza per quest’uomo burbero ma vicino ai suoi operai, una signora, tra i tanti, afferma: “Ho lavorato per 30 anni in Mivar, ho sempre ricevuto rispetto e lo stipendio a fine mese era puntuale e assicurato anche quando, terminata la cassa integrazione, Vichi ha continuato a pagare di tasca sua”. La tumulazione, nella nuda terra, come desiderava Carlo Vichi, è avvenuta in forma privata, martedì mattina nel cimitero di Abbiategrasso. 

Così ricordo Carlo Vichi

Di  Carlo Vichi ho conosciuto prima la voce. Erano gli anni ‘80, mi avevano segnalato uno sciopero alla Mivar, ci sono andata per intervistarlo. Superata la portineria, ho visto un corteo di poco meno di un migliaio di operai, per lo più donne, che si snodava lungo il cortile della fabbrica, al grido cadenzato di con-trat-to /con-trat-to, a cui rispondeva una vocina un po’ stridula e imperiosa, con una irriverente rima. L’ho incontrato poco dopo, in un punto qualsiasi di un laboratorio, un omino con al seguito un giovane bocconiano neolaureato, impassibile a qualsiasi provocazione del suo ‘padrone’ che ingaggiò subito con me una battaglia. Capii di essere messa alla prova, rifiutai il saluto romano spiegando che non mi sognavo di farlo e che esulava dal motivo che mi aveva portata lì. Fece una sceneggiata che non mi intimidì anche perché durante la sua sfuriata, lessi lampi di ironia e divertimento nei suoi occhi. Iniziò così un lungo rapporto ‘alla pari’, rispondevo a tono o scoppiavo a ridere, prendendomi dell’irriverente ma, dopo ogni mio articolo su quanto succedeva alla Mivar, mi convocava e lo trovavo in distribuzione, in fotocopie sul tavolo che condivideva con qualcun altro. Scoprii da subito infatti che non aveva un ufficio, un punto privilegiato dove ricevere i visitatori, chiunque fossero, perché ogni angolo dove si lavorava, che fosse il laboratorio o il magazzino, riteneva avesse pari dignità. Tante, tantissime le visite in Mivar, chiamata anche dai sindacati e fatta entrare mescolata alle operaie per partecipare alle assemblee, o perché convocata dallo stesso ‘genius loci della Mivar’ come a volte si definiva Carlo Vichi, per raccontare ogni novità e per sentirmi dire più di una volta: “Lei ha potere su di me perché mi è utile e non chiede niente in cambio”. Ho registrato in oltre 40 anni intere bobine con progetti, sfuriate, testamenti, confidenze che rimarranno tali. Spesso ho accompagnato da lui colleghi che me l’hanno chiesto, oppure politici e altri, come i rappresentanti dell’ambasciata indiana, quando ormai il tubo catodico era stato soppiantato dalla nuova tecnologia, ma non ancora in India che sarebbe potuta essere invasa dai tv Mivar se non fosse che il nostro sistema Pal risultò incompatibile. Centinaia gli aneddoti, inaspettati e immancabili a ogni visita, ogni volta provava a scatenare una’ battaglia’ con l’interlocutore, chiunque fosse e, se non superava la prova, se riteneva di non aver nulla da imparare e di perdere tempo,  presto lo congedava, a volte per sempre. A volte si invitava, gradito ospite, di sabato a pranzo. In cucina assaggiava direttamente dalla pentola, era però un incubo per mio figlio, da cui pretendeva e otteneva che lasciasse il piatto completamente pulito. Si stimava della camicia con collo alla coreana e tasche, un suo modello, era soddisfatto per le scarpe che si era risuolato da solo in officina. Gli era piaciuto in particolare il mio articolo sulla nuova Mivar, che ho definito la sua ‘piramide’ e che mi ha fatto visitare in anteprima, girandola con la sua Mercedes blu, cominciando euforico, con una spericolata gimkana nel parcheggio coperto, pensato perché le sue maestranze non si bagnassero… Si bagnò lui e anche il politico che mi chiese di invitare, durante la visita dei 120mila metri quadri, in quello spazio enorme, destinato credo allo stoccaggio, dove non so come gli venne l’idea di azionare un potente idrante che iniziò a roteare e a spruzzare un potente getto d’acqua che, prima di essere  fermato, infradiciò entrambi. Quanti tentativi, quanto lavoro ha fatto il signor Carlo per la sua Mivar, la sua creatura per eccellenza, di cui è stato l’artefice di ogni particolare, sia nella prima struttura che nella nuova. Tanti i tentativi di salvare la produzione, dai contatti con la Cina per avere componenti di ultima generazione ad un costo che gli permettesse di rimanere sul mercato, ricordo un incontro a cui fui invitata perché diplomata in cinese. Non si voleva arrendere, molti  i momenti di sconforto e l’amarezza a cui poi reagiva con altri tentativi e altri progetti. C’ero quando in diretta Rai è stato confezionato l’ultimo tv Mivar. C’ero quando ha deciso di produrre i tavoli e le sedie che aveva già disegnato per la mensa della Mivar, con comodi poggiapiedi e sedie scorrevoli, nate per il miglior confort degli operai. C’ero quando mi ha chiesto di  realizzare per pubblicizzarli, un set fotografico nello showroom di famiglia. C’ero quando mi ha convocata, dopo avermi mandato le bozze da correggere della sua ultima fatica “Filosofia in versi” che ora ho qui davanti e mi emoziona perché il giorno a cui si stava preparando è arrivato. In 2 sole pagina ha riassunto la storia della sua vita che è anche quella della Mivar, 120 sonetti di autori come Trilussa che recitava a memoria con grande trasporto. Ma ci sono anche passi di Dante e il ‘Se fossi foco’ di Cecco Angeleri, un assaggio della sua sorprendente formazione da autodidatta. Al termine quello che chiama il suo testamento spirituale. Mi consegnò l’opera pubblicata, capii perché della ‘convocazione’ ‘quando si diffuse improvvisamente un audio con un discorso di commiato registrato in stile documentari ‘Luce’, seguito da musiche scelte. Attendeva il mio commento, dissi: per fortuna non c’è solo Faccetta Nera ma anche Mina e Celentano.  Disse: “E’ per il mio funerale, voglio essere messo  qui in Mivar, in una cassa di imballaggio, nudo, perché nudi arriviamo e nudi ce ne andiamo. Chi vorrà venire a salutarmi mi ascolterà per l’ultima volta”. Per sdrammatizzare e stemperare la sua malinconia, scoppiai a ridere e dissi: “Che indecenza, si copra almeno con un lenzuolo!” Ridemmo entrambi. Sul tavolo anche i fogli  su cui aveva disegnato la sua lapide (nella foto). Grazie signor Carlo, per la stima e l’affetto. Reciproci. Mi ha insegnato che è importante essere sempre sé stessi, continuare a sognare e progettare, lavorare sodo per essere utili agli altri. Grazie, signor Carlo. Enrica Galeazzi